Medicalizzazione della morte: negazione o creatività?
Proponiamo alla lettura e riflessione un contributo apparso qualche anno fa su una rivista francese Ethica Clinica su un aspetto che resta di costante attualità e che merita la nostra attenzione. Bruno Cadorè, medico, teologo, bioeticista e religioso, ci aiuta a rifletter su almeno due comportamenti che ricorrono nei nostri discorsi quasi sempre giudicati negativamente: “la medicina moderna nega la morte” – “la morte è medicalizzata”. Ci invita a riflettere su cosa davvero vogliano dire queste affermazioni. La medicina non può “negare” la morte, non fosse altro perché è l’unica autorizzata ufficialmente a dichiararla, ma come attività fortemente attraversata dalla tecnica, trova difficoltà a parlarne in modo adeguato contemporaneamente ai tempi e all’umanità delle persone. In cosa consistono queste difficoltà? Deve la medicina fare uno sforzo in questo senso? La medicalizzazione, intesa come intervento massiccio e inevitabile della medicina nelle fasi finali della vita, innegabile anche se mitigato nella pratica delle cure palliative, è davvero sempre e solo una cosa negativa? Esistono dei rischi sicuramente nella medicalizzazione ma esistono anche delle opportunità. E’ il caso di rifletterci.
Di seguito la traduzione dell’articolo.
MEDICALIZZAZIONE DELLA MORTE: NEGAZIONE O CREATIVITÀ‘?
Bruno Cadorè
Riferendosi alla medicina moderna, si parla spesso di “negazione della morte”, indicando con ciò quello che è percepito come la difficoltà, per una medicina che si vuole performante, di affrontare il limite della morte, vissuta come uno scacco. Si vuole cioè sottolineare la difficoltà di stabilire un rapporto sereno con la mortalità umana. Ciononostante, l’ipotesi che noi difenderemo consisterà non tanto nel mettere in causa un comportamento giudicato negativamente, quanto nel dimostrare perché queste difficoltà esistono. Mostreremo in particolare che, come ogni attività attraversata dalla tecnica, la medicina moderna deve inventare nuovamente il rapporto dell’uomo con se stesso. Essendo, come è noto, il rapporto dell’uomo con la propria morte uno dei requisiti che caratterizzano maggiormente le culture, ed essendo la morte dell’uomo moderno sempre più medicalizzata, la medicina si trova nella condizione di contribuire a questa invenzione culturale. La questione è dunque misurare i rischi, ma anche le opportunità, della medicalizzazione della morte.
Il cambiamento del rapporto con la morte
Si deve parlare di negazione?
Il termine “negazione” è molto preciso e designa un comportamento inconscio di rifiuto di una realtà. Il suo uso a proposito del rapporto della medicina con la morte, richiede quindi qualche spiegazione. La negazione è un comportamento abitualmente riferito alle persone. Qui, si tratta di una attività o forse di una logica se si sottolinea la parte dello sviluppo tecnico che non dipende interamente da decisioni personali. Se questa logica induce un rapporto particolare con la morte, rimane la necessità di cercare di comprendere questo a partire dalle persone concretamente coinvolte nella logica stessa. Ciò invita alla prudenza: l’etica in effetti si interroga sulla qualità dell’impegno personale, anche se deve riconoscere gli eventuali limiti all’autonomia personale di fatto esercitati, per esempio, dalle istituzioni o dalle pressioni culturali. La medicina ha un rapporto con la morte che probabilmente non può liberarsi totalmente da una certa ambivalenza; è un rapporto allo stesso tempo stranamente familiare e decisamente contradditorio. In effetti è importante segnalare che lo studio della morte ha avuto un posto importante nel processo stesso della conoscenza medica fin da quando la medicina è passata all’anatomo-clinica, facendo dello studio delle lesioni anatomiche ilpunto dì appoggio centrale per la comprensione dei processi fisiopatologici. Ma, d’altra parte, la medicina nasce dall’imperativo di sollevare le sofferenze vissute dalle persone, come una specie di memorandum della mortalità umana. In questa ottica la medicina ha il compito di lottare contro le malattie, non per negarne il carattere ineluttabile, ma per affermare la capacità dell’uomo di non arrendersi alla malattia come a un destino (affermazione dell’autonomia). Si può così comprendere che l’ “ombra della morte” è presente, portatrice di una “onnipresenza”, al centro della relazione tra paziente e curante. Essa è allo stesso tempo oggetto di una battaglia comune e un sentimento di “paura”, se non di repulsione. La realtà più presente nella relazione di cura è molto probabilmente la morte, realtà dalla quale nessuno può scappare ma della quale, nello stesso tempo, è difficile parlare. Questo comportamento, fatto di fascino e prevenzione, lascia la sua traccia nell’insieme della strutturazione di una cultura: i riti sviluppati attorno alla morte come orizzonte simbolico ed ai cadaveri umani come realtà, testimoniano questo duplice atteggiamento e sono là per aiutare l’uomo a trovare nella tensione che ne deriva un equilibrio sereno e fecondo. La morte è ciò che segna la realtà del rapporto dell’uomo col tempo, nel mentre rappresenta ciò che l’uomo vuole combattere per affermare – in modo limitato certo, ma reale – un certo controllo del suo rapporto col tempo.
Il cambiamento del rapporto con la morte
Oggi si deve dunque chiarire ciò che sembra essere un mutamento importante nel rapporto dell’uomo moderno con la morte. Innanzitutto è importante sottolineare che quello che si dirà deriva dall’esperienza dell’uomo moderno che parla di morte nel contesto della medicalizzazione della mortalità sua e dei suoi simili. Non rappresenta la totalità dell’esperienza umana contemporanea della malattia. In molti altri luoghi del pianeta, gli esseri umani hanno un rapporto più abituale – si direbbe quasi più familiare – meno mediatizzato con la morte: fame, grandi epidemie, catastrofi naturali, violenze diverse sono, per molti uomini, donne e bambini, l’occasione quotidiana dell’incontro con la morte in una dimensione che sfugge totalmente a una presa in carico controllata.
Gli antropologi contemporanei sottolineano che, sotto l’influenza dei progressi della medicina, l’essere umano ha sviluppato un nuovo rapporto con la morte. Ph. Ariés[1], per esempio, parla della “morte invertita”(o proibita), in opposizione a quello che descrive come un lungo periodo di “morte addomesticata”. E’ da notare che questo rovesciamento non è iniziato in un periodo di particolare efficacia medica. Detto con altre parole, non è certamente – comunque non solamente – la capacità medica di controllare la morte che provoca questo cambiamento di atteggiamento (cfr. a titolo di chiarificazione, la descrizione della morte di Ivan Il’ich di L. Tolstoi[2]. Si tratta piuttosto di un cambiamento nell’atteggiamento filosofico del soggetto nei confronti della sua propria esistenza; per il quale l’individuo si afferma sempre prima nella sua autonomia e pone dunque la questione del senso della storia di questa capacità di autonomia in modo sempre più radicale. Si può peraltro notare che questo atteggiamento può condurlo, nello stesso tempo, a pretendere di poter giocare questo ruolo di soggetto anche nei confronti della propria morte e quindi ad attendersi che la medicina sia capace di sostenere la sua esistenza individuale nel tempo. Si può senz’altro dire che la medicina ha rinforzato questa rivendicazione attraverso la sua stessa potenzialità ed efficacia contribuendo così al passaggio dal mitico al moderno come descrive, per esempio, E. Morin[3]. La medicina consolida il rapporto controllato con il limite così come l’analizza L-V. Thomas[4] quando mostra che la medicina è talvolta tentata d’intrattenere un rapporto considerandola come un accidente che sarebbe possibile evitare. Ciononostante, è importante sottolineare che può non essere la sola medicina tecnica che provoca questo passaggio. Bisogna anche guardarsi da un’interpretazione che condurrebbe a pensare che questo passaggio sarebbe in qualche modo forzato dalla tecnicizzazione della medicina. Ci sembra più pertinente considerare che l’uomo moderno – la cui cultura è certo attraversata da uno sforzo di medicalizzazione – si confronta con la sfida d’inventare un modo di rapportarsi con la morte che tenga conto delle sue nuove capacità e delle nuove rappresentazioni della sua esistenza.+
IPOTESI
Quanto detto porta a formulare un’ipotesi di lavoro: visto il posto della medicina nella cultura moderna, vista anche la sua influenza nella rappresentazione di sé dell’uomo moderno, è importante interrogarsi sul suo ruolo di mediazione del rapporto dell’uomo moderno con la morte. Se la questione fosse “la negazione della morte da parte della medicina” si potrebbe supporre che siano già state interpretate le modalità augurabili del rapporto dell’uomo con la morte quando ci si trova in un periodo di necessaria innovazione culturale. Invece il problema è il ruolo di mediazione di questo rapporto svolto dalla medicina che vi contribuirebbe per una parte importante in ragione della pregnante medicalizzazione nel rapporto con la salute nella cultura moderna. Porre così la questione permette di trovare dei mezzi e non di definire un qualunque “ideale” di modalità della morte, bensì di rispettare un certo numero di caratteristiche fondamentali del rapporto dell’uomo con la morte:
° la morte è nell’ordine dell’indicibile e, in parte, dell’estraneità, o piuttosto di una strana familiarità nei confronti della quale l’uomo vuole nel contempo tenersi a distanza e vicino;
° questo polo di estraneità è strutturalmente costitutivo del modo in cui l’uomo (arcaico, metafisico o moderno secondo le categorie di E. Morin) inventa il proprio rapporto culturale con se stesso e si costruisce le rappresentazioni di se stesso. In più, questo indica che il rapporto culturale non è nell’ordine della trasparenza, da dove deriva, probabilmente, la necessità di una ritualizzazione (addomesticante) di questo rapporto;
° le “ritualizzazioni” si inseriscono in un contesto di “recitazioni interpretative” che hanno potuto assumere forma di racconti mitici, ma che sono anche dei modi per l’uomo di situarsi nel posto che percepisce essere il proprio nella storia e nel cosmo. Interpretazione che, oggi, non si potrebbe dire al di fuori dell’acquisizione di un reale potere di controllo sui limiti dell’esistenza umana. E’ probabilmente in questa prospettiva che converrebbe interpretare la richiesta attuale di riti nuovi corrispondenti alle mutazioni del contesto della morte[5];
° è proprio questo che stabilisce l’importanza del modo in cui la medicina sarà integrata in questo lavoro di interpretazione.
Sarebbe perciò importante studiare il contesto culturale nel quale si chiede alla medicina di partecipare alla strutturazione innovante di un rapporto moderno con la morte. Questo contesto è, segnato per esempio, dall’allungamento del tempo dell’invecchiamento nel corso del quale la medicina è inevitabilmente sollecitata da progetti di vita individuali; dalla messa in scena delle sfide lanciate alla morte da certi “eroi dei tempi moderni”; o ancora dal paradosso che ci rende più sensibili alle morti in massa per catastrofi o per violenza umana lontane che alla morte vicina. Il posto della medicina difronte alla morte deve senza dubbio essere situato in questo orizzonte contestuale. Tale contestualizzazione permetterà di collocare al loro vero posto e di comprendere, i rimproveri fatti alla medicina moderna che portano a parlare di “negazione della morte”.
I rimproveri mossi alla medicina moderna
Qualche rimprovero
Ci si lamenta spesso con la medicina di usare, a proposito della morte, un linguaggio esplicativo che funzionerebbe come l’espressione della negazione. E’ l’affermazione di L.-V. Thomas quando nota che si può parlare in medicina di “collasso cardio-vascolare con scompenso sinistro predominante e asistolia terminale” per dire semplicemente che il cuore si è fermato”[6]. Certo si può pensare, o meglio sospettare, che questo distanziamento sia fittizio. Bisogna tuttavia sottolineare che l’atteggiamento esplicativo è costitutivo della medicina moderna, nello stesso tempo in cui testimonia dei suoi progressi. Si pensi, a questo proposito, a M. Foucault[7] che mostra come la morte sia divenuta la chiave del vivente e, a questo titolo, integrata nei discorsi di conoscenza. Un altro “rimprovero” implicito sembra spesso essere quello della morte ospedalizzata, “la morte scomparsa-nascosta” (L.-V. Thomas). E’ l’immagine banale delle reazioni di evitamento dei curanti, con il corteo delle difficoltà a trovare le parole giuste e il comportamento autentico con le persone vicine alla morte. Contemporaneamente, si deve fare attenzione al fatto che il trasferimento del luogo della morte (come del “tempo” della morte) può non significare altro che il contesto nuovo (logicamente, inevitabile) nel quale l’uomo moderno deve inventare il suo rapporto con la morte: morire all’ospedale o a casa propria non implica gli stessi rapporti con la morte a livello personale, sociale e familiare. Certo c’è “istituzionalizzazione” della morte (come della nascita, peraltro) per l’80% delle persone, ma restano da formulare le ragioni per le quali si pensa di doversene rammaricare.
Si rimprovera talvolta alla medicina anche di “rubare” la morte, di programmarla (ciò che per alcuni è una conseguenza logica) in particolare nel contesto dell’ “accanimento terapeutico”, nei riguardi del quale si esprime un consenso negativo e giustificato (si noterà che, in questi ultimi anni, i progressi per migliorare la proporzionalità delle cure mediche nelle situazioni più difficili, sono stati molto netti). Conviene distinguere accanimento e ostinazione, per riuscire a pensare nel contempo alla necessità di proseguire lo sforzo terapeutico (che deve essere rapportato al bene prioritario delle persone ma anche a quello del gruppo umano) e al carattere indispensabile della valutazione proporzionale delle cure. Si tratta qui di mettere in evidenza l’indispensabile sforzo di confronto con l’incertezza che è frenato forse dal peso crescente del “riflesso eutanasico”, almeno nell’immaginario moderno: “Quando il periodo che separa l’inizio e la fine di una malattia mortale tende ad allungarsi in conseguenza delle tecniche della medicina moderna, tutto appare come se si rifiutasse al “morire” la sua durata, e dunque il contenuto suo proprio, prima negandola poi riducendola ad un istante”[8]. Si potrebbe dire che i “rimproveri” mossi alla medicina esprimono la percezione di un rischio di fronte alla dimensione tecnica della medicina stessa ed ai maldestri tentativi umani di addomesticare la tecnica dandole umanità. Questo rischio si formulerebbe in due maniere complementari. E’ il rischio di una logica che privilegia l’efficacia, la produttività, in modo poco omogeneo per il rapporto vis-a-vie con il limite della mortalità e che si accompagna ad una certa logica di protezione dei curanti. E’ anche il rischio di una oggettivazione del corpo umano, tappa indispensabile all’esercizio stesso della scienza biomedica, che però espone alla tentazione di oggettivazione della persona umana stessa attraverso il suo corpo, a scapito della trascendenza della sua propria storia. Ne deriva che la posta in gioco è quella dell’“umanizzazione della tecnica”, cioè dell’inserimento della capacità tecnica moderna in seno alla rete dei significati simbolici. Dire questo è dire anche che si tratta della ricerca dell’umanizzazione dell’uomo ad opera della tecnica, di cui si trovano tracce lungo tutta l’evoluzione dell’umanità. Per questo è necessario non essere unilateralmente critici sullo sviluppo tecnico della medicina, a condizione che si eviti di assolutizzarlo.
Il peso delle critiche
Per comprendere queste critiche, è importante esplicitare quale è la posizione a partire dalla quale esse sono formulate.Il primo passo è identificare le esigenze di una cultura. Le culture sono caratterizzate dal modo col quale intrattengono un rapporto di rispetto, ritualizzato, nei confronti della morte. La memoria culturale occidentale può, in qualche modo, essere ravvivata dalle mutazioni profonde che si osservano nel rapporto moderno con la morte e sentirsi invitata a inventare nuovi rituali. La questione è allora quella di trovare come inserire la tappa contemporanea in una certa coerenza, se non continuità, con la storia. Tale coerenza si basa sulla necessaria distinzione tra tre realtà la cui percezione è differente. Innanzitutto il morente ed il rapporto vis-à-vis con lui, con gli interlocutori e, attraverso di essi, con l’umanità. Si è qui davanti all’esigenza di un’etica relazionale. Si tratta di una atteggiamento che si basa sull’accettazione dell’idea del limite, della finitudine dei viventi umani come fondamento della loro interlocuzione. Il cadavere, o la morte individualizzata, è la sola realtà a proposito della quale si può veramente parlare della morte e che lo sforzo tecnico cerca di ritardare. La morte, infine, come nozione generale o come “atmosfera culturale”. Qui si vuole sottolineare il fatto che il rapporto medico con la morte si inscrive in un contesto molto più ampio dove la morte è messa in scena, o fuori scena.
Conviene allora essere attenti ad una sorta di contraddizione, o perlomeno di tensione, tra movimenti culturali diversi. Si noterà la preoccupazione della qualità di attenzione verso i morenti e, allo stesso tempo la richiesta sempre più forte di una vita meno esposta possibile alla sua mortalità essenziale (testimoniata, per esempio, dagli sforzi di prevenzione, di medicina riparatoria o di protesi e dai prodigi della rianimazione). Si noterà anche la tendenza ad assumersi un certo numero di rischi a riguardo dei quali si conta sull’efficacia della medicina per farceli affrontare (per esempio il “rischio depressivo” assunto dalle nostre società industrializzate). Questo fa eco alla volontà di potenza della tecnica, non solo già manifesta ovunque, ma ancora attesa e promossa, talvolta a spese dei più deboli e dei meno performanti. La questione è sapere come si pone la preoccupazione di inventare un nuovo rapporto con la morte, che è in effetti un nuovo rapporto col morente. Si potrebbe, per esempio, far valere l’ipotesi che si tratti qui ancora della volontà di controllare questo momento ultimo che sfugge, attraverso un controllo tecnico certo, ma anche estetico e ancora, forse, etico! Noi sottolineiamo dunque qui la necessità di una reale prudenza per evitare una troppo forte “normalizzazione” della morte, delle sue tappe e del suo accompagnamento.
Attualità della morte nella medicina moderna: resistere alla menzogna per fare mediazione
Un paradosso
La questione della morte è centrale nella medicina moderna. Si vuole qui evocare il problema posto dall’eutanasia. Non si tratta di sostenere una riflessione di ordine etico su questo punto, ma solamente di sottolineare che, in questo momento della storia in cui l’essere umano si è munito di mezzi sempre più efficaci per curare e guarire, egli si interroga con maggiore acuità sulla legittimità o meno di mettere fine alla vita altrui (su sua domanda o nella presunzione della migliore scelta possibile, con tutte le ambiguità che questo comporta …). Ci sarebbe come una sorta di tentazione di “estensione di poteri” della medicina che si arrogherebbe (o si vedrebbe assegnato) il diritto di esercitare sulla vita altrui un potere analogo ma inverso a quello che il suo sapere le permette: il controllo sul processo della vita umana. E’ significativo constatare che, nello stesso momento in cui queste questioni sono poste, si sviluppa nei paesi della medicina moderna, un movimento molto forte quello delle cure palliative che vuole promuovere l’attenzione alle persone in fin di vita. La coesistenza di due movimenti così contraddittori in seno allo sviluppo di una sola e stessa logica di azione medica, fa sospettare che questa ultima sia portatrice di una lacuna concernente il rapporto con la morte, che sarebbe di fatto quello dell’“oblio” e che potrebbe arrivare anche fino alla negazione. Ma la negazione non riguarda solo l’oggetto che non si vuole considerare ma anche la determinazione inconscia di non impegnarsi su questo oggetto. Tale sarebbe dunque la posta in gioco della medicina moderna: come le è possibile oggi inventare un giusto rapporto con la morte?
Il rischio della menzogna
L’espressione “l’ombra della morte” può evocare l’ombra che si fugge o l’ombra che accompagna. Non accettare questa “compagnia” irrevocabile di tutto lo sforzo medico, rischia in effetti di condurre i curanti a “mentire”: alle persone morenti così come a se stessi. Uno degli impegni della medicina moderna potrebbe consistere proprio nell’evitare, individualmente per le persone e in particolare per i curanti, ma anche collettivamente per le società, tale menzogna. E’ la capacità di restituire alla morte la parola, di poter mutualmente nominare quello che si vive e si percepisce, un modo anche di riconciliarsi mutualmente con questa parte costitutiva di se stessi. Può anche essere che sia proprio da questa esigenza e dalla sofferenza che ne deriva, che ci si vorrebbe difendere[9].
Molte sarebbero le testimonianze di persone alla fine della vita che si scontrano col silenzio- menzogna di chi sta loro attorno. Senza entrare qui nel dibattito concernente il tenore di ciò che conviene dire a una persona gravemente malata, vorremmo semplicemente iniziare una riflessione sul rapporto della medicina con la morte, partendo dalla costatazione della frequenza di tale menzogna che spesso fa soffrire le persone implicate direttamente (i pazienti, certo, ma anche tutti coloro che credono di essere obbligati a tale menzogna). Questa riflessione è importante se si vuole cercare di mettere in luce il modo in cui la medicina moderna potrebbe sviluppare un rapporto sereno con la morte.
“ E cosa strana! Egli fu molte volte sul punto di gridare loro “Basta menzogna! Lo sapete bene e anch’io lo so, che sto morendo! Cessate dunque almeno di mentire!” Ma egli non ebbe mai il coraggio di agire così. L’atto atroce della sua agonia era sminuito da chi gli stava attorno, lo vedeva bene, al livello di una semplice sgradevolezza, quasi di un inconveniente (similmente a come si agisce verso un uomo che emana cattivo odore entrando in un salone), e questo in nome di quella stessa “correttezza” cui egli si era assoggettato per tutta la sua vita. Vedeva che nessuno aveva pietà di lui, perché nessuno voleva nemmeno comprendere la sua situazione” [10]
Evocare questa menzogna davanti alla morte, sottolinea il paradosso che l’essere umano talvolta sviluppa molte strategie, anche quando è intimamente certo della sua mortalità e della sua fragilità essenziale, per evitare un confronto troppo diretto con questa realtà, strategie esse stesse rinforzate dalle strutture di cura troppo centrate sull’immediatezza, la tecnica e il rendimento.
L’uomo moderno è forse particolarmente tentato da queste strategie di evitamento. La qualità e l’efficacia della medicina odierna, il rapporto che intratteniamo con la salute sognata sempre più perfetta, i criteri di produttività e di bellezza, la forza delle dinamiche dei progetti per l’avvenire sono altrettanti elementi che tendono a riportare la realtà della morte fuori del nostro campo di coscienza. E’ così che L.-V. Thomas[11] ha potuto descrivere tre categorie attraverso le quali noi percepiamo oggi la morte, categorie che sono molto spesso in interazione le une con le altre:
° la morte è talvolta percepita come il “guasto” di un corpo considerato come una “macchina” che bisogna imparare a riparare, a “rimettere in moto”, ciò che sottolinea la prospettiva di efficacia e di performance nella quale ci si rappresenta l’esistenza corporea dell’uomo;
° la morte è anche vissuta come un’ “aggressione” e interpretata tanto spontaneamente come tale, che ci rappresentiamo più volentieri quella che può essere una “morte naturale”. Di un grande vecchio di oltre 90 anni, si dirà ancora sovente che è morto di un “accidente cardiaco” e non per l’usura del tempo. La morte non è più considerata come segno della finitezza umana in se stessa, parte integrante dell’esistenza dell’uomo (“Ottanta per i più vigorosi”, diceva la Bibbia, Psaume), ma piuttosto come un accidente del quale bisogna scoprire cause ed eventuali responsabilità;
° la terza categoria è quella dell’artificio particolarmente pregnante da quando siamo abituati a rappresentarci la morte in un contesto di assistenza medica molto sviluppata. La morte è ormai medicalizzata, ciò ha come vantaggio di poter evitare un certo numero di decessi, ma ha anche come conseguenza di rinforzare l’idea che la medicina tecno-scientifica deve assumere come principale sfida quella di “vincere la morte”… e forse non più di curare, di prendersi cura dell’uomo che, anche se guarisce dalla precisa malattia per la quale è curato, è un essere che sa, o deve imparare, che dovrà morire [12]. In questo contesto, è difficile non percepire la morte come la disfatta di un progetto di conquista delle tecno-scienze sul territorio della morte stessa.
Un rapporto medicalizzato con la morte? “Umanizzare” la morte?
Molti saranno d’accordo nel dire che ci si deve interrogare sul modo in cui la medicina affronta la morte e contribuisce a costruirne certe rappresentazioni. Per darsi i mezzi di identificare il ruolo augurabile della medicina moderna, è importante oggettivare la complessità di tali rappresentazioni.
Mediazioni diverse del rapporto con la morte
Non è raro sentir definire l’obiettivo della medicina come un combattimento contro la malattia e la morte. Anche se si può legittimamente considerare che questa definizione è in parte falsa[13], essa interpreta bene, da una parte, l’ambizione della medicina, dall’altra la funzione che le è attribuita dal corpo sociale che l’istituisce. La medicina come istituzione è una specie di intermediario attraverso il quale la società organizza il suo rapporto con la malattia e con la morte, forse principalmente con la morte. Certo, il progresso della medicina fa che i limiti della morte siano sempre più allontanati, facendo posto ad una più grande facilità di negazione. Tuttavia bisogna sottolineare che a mediare il rapporto di una società con la morte, la medicina non è la sola istituzione: le religioni lo sono sempre state e oggi si vede che le imprese di assicurazione vita o di assunzione in carico del decesso (imprese funebri), lo sono altrettanto, ciascuna sul registro proprio che è il loro.
Il “carico” della morte
Una particolarità della medicina è di avere il compito di costatare la morte, di attestarla in qualche modo (è la parola o la dichiarazione scritta del medico che fa sapere che un tale è morto). I medici pronunciano la parola dichiaratoria che irrompe nel tempo dei vivi testimoniando in questo senso della corporeità della persona umana. Può essere per causa di questa funzione molto particolare che la medicina è implicitamente investita del “carico” della morte. Si comprende allora come si sia trovato normale che la maggior parte dei nostri contemporanei arrivi a morire non in casa propria ma all’ospedale (benché in generale dichiarino che non è quello che desiderano). Si può altresì comprendere che la medicina si veda in qualche modo incaricata di assumere quello che produce: poiché essa può provocare delle sopravvivenze incredibili, ha il carico di assumersele, di assicurarne in qualche modo il seguito e la qualità.
Caricata della morte, la medicina può anche prevederla in modo meno incerto di un tempo: è possibile nominare ciò che sta facendo morire, da qui le difficoltà incontrate nella “verità detta al malato”, ma anche le difficoltà molto gravi incontrate dalla medicina nel periodo prenatale quando può formulare una diagnosi previsionale, predittiva.
La sicurezza progressivamente acquisita dalla medicina sulla morte, spiega anche senza dubbio che ci si attende dal suo sviluppo che essa trovi qualche mezzo per “controllare” questa morte che nessuno vorrebbe più che sopravvenisse, in ogni caso non inaspettatamente come se venisse a distruggere la pretesa dell’uomo moderno di tenere la propria vita in pugno, a cominciare dalle sue capacità di esistenza biologica.
Solitudine dei morenti, solidarietà degli umani
Di fronte all’eccesso di medicalizzazione della morte, si sente spesso dire che bisogna riappropriarsi (ri-addomesticare) di una morte ormai fatta scomparire, nascosta. Ma questo sarebbe sufficiente a tener conto delle mutazioni nella continuità che abbiamo cercato di descrivere?
Si dice anche che bisogna, di fronte a questa invasione del momento della morte da parte della tecnica medica, sviluppare una relazione di qualità con coloro che stanno morendo e con chi è loro vicino. Insistenza giustificata non fosse altro che per rispondere alla domanda di accompagnamento, di prossimità e di sollievo dalle diverse sofferenze che compaiono in questo momento dell’esistenza umana. Ma nello stesso tempo, questo lascia intatte le difficoltà prodotte dalle mutazioni segnalate nel complesso contesto di cui si è tentato di descrivere qualche aspetto. Come stabilire questo tipo di relazioni in un contesto molto determinato, rispettando i livelli di competenza e le esigenze per l’esercizio di questi ultimi?
Il problema davanti al quale siamo è in effetti più difficile e più complesso. La morte dell’uomo è divenuta in parte medica, ed è la conseguenza dello sviluppo della medicina al servizio del bene dell’uomo. Bisogna dunque ormai che l’umanità inventi i suoi discorsi sulla morte proprio quando ha acquisito un rapporto di potere tecnico su di essa. Questo presuppone certo delle scelte che permettono all’interno dell’istituzione medica di stabilire un rapporto di maggiore ”tolleranza” verso la morte. Ma questo suppone anche, lo si comprende, una vera “riforma della vita” (E. Morin)
E’ dunque un discorso sul rapporto tecnico con la vita che bisogna sviluppare, per evitare la fuga verso un naufragio in prossimità della morte, che sarebbe un altro tipo di fascinazione poco ragionevole. Con l’entrata della medicina nell’era della tecnica, il nostro rapporto col corpo, col sesso, col lavoro e con la morte sono divenuti tecnici. Se, dunque, il nostro rapporto con la morte è medicalizzato, per evitare che esso non sia solamente tecnico, non si tratta di “demedicalizzare” la morte, ma di inventare la medicina tecnica al servizio dell’umanità dell’uomo e delle relazioni interumane. La questione del senso contemporaneo della morte, poiché ogni vita deve finire, dovrebbe essere posta contemporaneamente a quella del senso della tecnica che probabilmente non può negare questa finitudine costitutiva della nostra umanità.
Sovente è la morte dell’altro che porta l’uomo a non dimenticare l’orizzonte di mortalità: doppia coscienza che io sono mortale e che sono interessato dalla morte del mio simile. Questo orizzonte sottolinea come nel mistero della morte si giochi quello di un individuo, quello di una società e il mistero ancora più grande della responsabilità dell’uomo per la morte dell’altro. Certo, il problema della morte non è presente sempre in ogni relazione di cura. Quest’ultima è ciononostante segnata profondamente dal fatto che è uno spazio di incontro dove avviene il confronto esistenziale di due esseri costituiti dalla stessa realtà al contempo forte e fragile: quella di una comune mortalità. Il processo probabilmente irreversibile della medicalizzazione della morte costituisce, da questo punto di vista, una esigenza per elaborare una filosofia della cura che dia tutto il suo spazio a questa esperienza esistenziale.
* BRUNO CADORE’ , medico, teologo, professore di etica biomedica e direttore del centro di etica medica dell’Università Cattolica di Lille, ha pubblicato questo articolo sulla rivista Ethica Clinica n. 9, 1998 pp 3-10 (traduzione di Loreta Rocchetti)
[1] Ph.Ariès, L’uomo e la morte dal medioevo ad oggi. Secondo Ariés è possibile individuare cinque tappe storiche dell’evoluzione del rapporto dell’uomo con la morte dal medioevo alla fine del ‘900: 1. La morte addomesticata, 2. La morte di sé, 3. La morte dell’altro, 4. La morte proibita (o invertita).
[2] L.Tolstoi, La morte di Ivan Il’ich, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2008
[3] E.Morin, L’uomo e la morte, Newton Compton, Roma 1980; Meltemi, Roma 2002
[4] Utile riferirsi a L.-V. Thomas, Antropologia della morte , Garzanti 1976, così come all’insieme dell’opera di questo autore. Egli identifica cinque tappe nell’evoluzione del rapporto dell’uomo con la morte non esattamente cronologiche: desacralizzazione, desocializzazione, legame tra morte e redditività, legame tra morte e scienza (la morte considerata come “malattia”), posto della morte nell’urbanizzazione (i cimiteri).
[5] J. Bacque, Les nouveaux rites du deuil, O.Jacob, Paris, 1997
[6] Citato da L.-V. Thomas
[7] M.Foucault, Nascita della clinica, Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, 1998
[8] C. Herzlich, Le travail de la mort, in Annales I, janv.-fèv 1976
[9] A questo proposito è utile leggere Léon Burdin, Parler la mort. Des mots pour la vivre. 1997 – Sorella morte. Parliamone insieme. Feltrinelli
[10] L. Tolstoi, La morte si Ivan Ill’ich, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2008
[11] L.-V. Thomas, op. cit.
[12] L.-V. Thomas op. cit.
[13] Si può combattere la morte almeno quella fortemente prematura? E ancora, bisognerebbe definire cosa si intende per morte prematura?
Questo è uno spazio aperto di confronto e dibattito. Gli articoli possono essere proposti per la pubblicazione ma non necessariamente rappresentano la posizione di Fondazione Hospice Trentino Onlus.
Articolo proposto dalla dottoressa Loreta Rocchetti.