QUALE SPERANZA NELL’AMBITO DELLE CURE PALLIATIVE?
Di seguito l’articolo “Quale speranza nell’ambito delle cure palliative? Luca Ottolini *. Articolo nel dossier “Condividere la speranza”, n. 33/2016 . Rivista per le Medical Humanities rMH, Ed, Casagrande Bellinzona
Il contesto
Storicamente nate in Inghilterra negli anni Sessanta del ’900, le cure palliative hanno subito nel corso dei decenni un’evoluzione parallela e progressiva all’affinarsi della tecnologia sanitaria e alla parcellizzazione medica. Tale evoluzione si è determinata sia nell’ambito di applicazione che nella tempistica. Di fatto, inizialmente dedicate sostanzialmente a malati oncologici «terminali», esse hanno acquisito vieppiù rilevanza in ogni ambito medico-chirugico per un’applicazione sempre più precoce. Non solo quindi una medicina del morente, ma una «medicina dell’uomo, che è vivente sino alla morte». In un certo senso, le cure palliative hanno rappresentato l’allargamento della prospettiva di cura con un passaggio del focus dalla malattia alla persona: in sostanza, la riconquista dell’«umano» rispetto al «dettaglio». Ciò ha comportato un viraggio degli obiettivi di cura dal semplice cercare di controllare una malattia al ben più complesso cercare di permettere la realizzazione degli obiettivi della persona malata. Ma come si può dunque, almeno concettualmente, conciliare una situazione di terminalità clinica con la nozione di speranza? Sintetizzando la definizione dell’OMS, le cure palliative sono «un approccio di cura finalizzato a migliorare la qualità di vita di malati affetti da malattia in fase evolutiva-terminale…». Sempre sintetizzando, per l’OMS la qualità di vita è strettamente dipendente dalla «percezione che la persona ha rispetto al suo ruolo… in rapporto ai propri obiettivi e desideri…». Ne consegue che la qualità di vita sia legata al benessere psico-fisico, rispetto agli obiettivi e desideri della persona, ossia alle sue speranze. Quindi possiamo affermare che chi cura una persona in fase avanzata o terminale di malattia, non solo dovrebbe sostenerne la speranza, ma fare proprio dell’oggetto della stessa il principale obiettivo di cura. Di fatto, chi lavora in tale contesto, ha il grande privilegio di intercettare ed entrare in contatto intimo con le persone in uno dei momenti più significativi della loro vita. Da ciò ne consegue la responsabilità non di salvare loro la vita, bensì di aiutarle a ritrovarne il senso, individuando obiettivi prioritari e alimentandone le speranze.
Per questo, il setting di cure palliative comporta la presa in carico del malato affetto da malattia evolutiva, nella completezza degli aspetti biologici, psicologici, sociali e spirituali. Una modalità di cura che necessita per definizione un lavoro d’équipe nell’interdisciplinarità e interprofessionalità.
Le domande
Fin qui la semplicità e perfezione delle definizioni e della teoria, ma cosa succede nella vita reale, nella pratica del quotidiano? Chi di noi di fronte all’ineluttabile s’immaginerebbe di poter conservare ancora una qualsiasi speranza? Quando persino il vaso di Pandora dovesse sembrare completamente vuoto e anche il medico, in cui si aveva riposto fiducia, dovesse sentenziare che «non c’è più speranza». Come può essere possibile ignorare un elefante rosa in una stanza? Quale speranza può esservi di fronte all’evidenza dell’imminenza della morte, quando anche i familiari del malato riescono solo dietro la porta socchiusa a sussurrare «la speranza è l’ultima a morire»? In sostanza: quale può essere lo spazio per la speranza in un contesto di fine vita e in particolare di cure palliative?
Una questione di prospettiva
Certo, se la prospettiva della speranza fosse unicamente quella «oggettiva», «realistica», rivolta alla cura e guarigione della malattia e al prolungamento della vita, non potrebbe esservi nessuno spazio: per definizione, l’abbiamo specificato, le cure palliative non sono deputate a questo. Purtroppo, di fatto è da questo punto di vista che si pone la maggioranza dei curanti e una parte dei familiari quando considera la possibile speranza in questa fase della malattia e della vita1. In questa ottica, qualsiasi manifestazione di ottimismo o speranza da parte del malato viene conseguentemente considerata con significato solo negativo, inteso come «negazione o rimozione» della realtà, e il sostegno della stessa andrebbe rifiutato dal curante come dai familiari, se non a costo di sostenere vane speranze con le famose «bugie a fin di bene».
Da queste considerazioni, apparentemente banali, derivano conseguenze tutt’altro che indolori per l’assistito.
– La prima è l’irrispettoso imbarazzo, con cui ci si costringe a ignorare l’evidenza di fronte a quello che consideriamo un «malato terminale».
– La seconda deriva dal fatto che la percezione (pre-concetta) di un dato ne influenza la comunicazione. Così, se la percezione dei sanitari o dei familiari rispetto alla speranza sarà esclusivamente orientata verso una prospettiva «realistica», sarà improbabile riscontrare una comunicazione aperta, sincera, empatica. Da questa prospettiva, la speranza ha senso solo se orientata alla realtà e verità della condizione, quindi ogni informazione onesta sulla malattia, il parlare di prognosi, di direttive anticipate o di cure palliative non può che distruggerla.
– Da ciò deriva la terza e ben più ampia conseguenza, ben più grave della spesso banalizzata «bugia a fin di bene», o della tristissima «congiura del silenzio» con cui spesso si indica l’impudico «negare per non togliere la speranza». Ciò comporta di fatto il negare a quella persona il diritto decisionale (di autonomia) per una parte (irripetibile) della propria vita.
Evidentemente, se le cose fossero unicamente così, se la prospettiva di visione fosse solo questa, non ci sarebbero alternative: la speranza in contesti di malattie inguaribili non potrebbe esserci, a meno di non essere solo «parzialmente sinceri». Fortunatamente è ampiamente dimostrato nella pratica, che anche di fronte all’evidenza dell’ineluttabile, la persona sa ricavare spazio per la speranza. Non irrazionale illusione, ma capacità di «ri-vedere», in base alla situazione, la propria posizione rispetto a nuove prospettive e obiettivi, trovandovi un senso e confidandovi valore e fiducia. Ce lo ricordano in modo forte le testimonianze lasciateci da chi è sopravvissuto all’Olocausto nazista, che ha dichiarato come «la speranza sia stata basilare per sopravvivere »2. Ce lo ricordano i pazienti che come curanti intercettiamo e vorrebbero essere trattati ancora da persone prima che da «morenti». Dunque, accanto alla prospettiva «realistica» della speranza, ne esiste una seconda, cosiddetta «funzionale», autentico meccanismo di coping che orienta il paziente a concentrarsi su obiettivi concreti e realizzabili, per lo più di qualità di vita. È stata infine descritta una terza prospettiva di speranza, definita «narrativa», legata in sostanza alla propria storia e valori, che coinvolge i piani più profondi della persona, «spirituali», e va oltre la malattia e la vita3.
La prospettiva della persona in fase avanzata di malattia
In fase avanzata di malattia, oggetto e prospettiva della speranza dunque cambiano. Se chi è affetto da una qualsiasi malattia a prognosi favorevole tende a finalizzare la propria speranza verso obiettivi generali e per lo più oggettivi-realistici (guarigione, sopravvivenza), con l’aggravarsi della situazione questi diventano progressivamente più definiti, specifici e di più profonda natura. Raramente resta al centro il controllo della malattia, per lo più lo diventa il controllo dei sintomi, il riuscire a concludere qualcosa prima di morire, il vivere serenamente quanto è concesso, sino al poter morire in pace. In presenza di una malattia a prognosi infausta, dunque, la speranza non è uno stato, ma un divenire. Nella pratica è fondamentale comprendere come tale evoluzione non sia spontanea, né inizi automaticamente una volta comunicata la diagnosi o la prognosi, ma necessiti di fattori favorenti, come pure possa incontrare eventi sfavorevoli. Su questo processo adattativo interagiscono fattori biologici-fisici, sociali-affettivi, cognitivi-culturali e spirituali- intimi. Il mantenimento di speranze orientate esclusivamente su oggetti riguardanti le cure della malattia raramente è funzionale e per lo più comporta gravi sofferenze. Il mantenimento del controllo del proprio corpo malato (sintomi), del proprio ruolo sociale (relazioni) e della propria capacità cognitiva-speculativa (spiritualità) porta a riconoscere la situazione, darle un senso e trovare la propria collocazione rispetto a obiettivi coerenti. Ciò in sostanza permette la matura e valida evoluzione della speranza.
Ricadute pratiche
Dal punto di vista pratico, le tre prospettive della speranza raramente sono così nette, univoche, né sono esclusive. Possono coesistere, complementari più che alternative o in opposizione, così come mutare ed evolversi. È evidente la necessità che il clinico, e chiunque si rapporti col malato, non solo conosca, ma sappia interagire con tutte e tre le prospettive, in modo da poter essere concretamente d’aiuto all’assistito. Nel caso specifico della fase palliativa della malattia, è necessario che chiunque si occupi del malato conosca i fattori favorenti l’evoluzione positiva o negativa della speranza, in modo da poter intervenire in modo appropriato4.
Innanzitutto, vi sono fattori strettamente legati al paziente stesso. È dimostrato che coraggio, umorismo e ottimismo facilitino l’adattamento e quindi favoriscano l’evoluzione verso obiettivi di speranza congruenti e validi. È altresì provato che, all’opposto, precedenti esperienze negative come pregressi o incipienti episodi depressivi la limitino. Allo stesso modo, la corretta informazione e conoscenza della propria situazione porta alla percezione di poterla controllare, trovandovi un senso rapportato al proprio passato, mentre informazioni non coerenti comportano la sensazione di perdita del controllo e assenza di obiettivi.
Altri fattori sono correlati al contesto sociale. La valorizzazione della persona, il mantenimento del proprio ruolo nel consesso umano, la presenza di relazioni significative, come banalmente la possibilità per il malato di poter vivere il più possibile nel proprio contesto domestico, aiutano un positivo mantenimento e un’evoluzione della speranza. In senso opposto, ricevere messaggi contrastanti con ciò che il malato recepisce dal proprio corpo, come non poter parlare apertamente delle proprie condizioni, del proprio futuro o della morte, impediscono qualsiasi speranza evoluta e sostenibile.
Vi sono infine, ma non certo marginali, fattori legati ai curanti. Se, da un lato, onestà e chiarezza nell’informazione sono fattori apprezzati e positivi, una comunicazione incongrua, oppure brutale e solo negativa può togliere ogni speranza. Così il rispetto della persona, che si manifesta nella sincerità della relazione, come nell’attenzione al controllo dei sintomi, è decisivo nel sostenere la speranza. Al contrario, sarà improbabile mantenere una qualsiasi speranza, con la s-valorizzazione della persona che si manifesta nell’abbandono, nell’accanimento come nella futilità terapeutica, nell’approccio sintomatico inefficace o nella comunicazione irrealistica e non coerente.
Speranza di guarire?
È un dato innegabile che anche nella fase terminale della vita si possa riscontrare la persistenza di una speranza «non evoluta», ossia solo fisica-obiettiva, focalizzata ancora su obiettivi evidentemente irrealistici, come la guarigione completa o improbabili recuperi funzionali. Il mantenimento di speranze «irrazionali» e apparentemente non funzionali, in realtà non va considerato necessariamente negativamente, ma sempre compreso e in alcune circostanze rispettato. Nel caso, va innanzitutto distinto se ciò derivi da un’informazione, una comprensione ed elaborazione corrette o meno. L’informazione, in ogni caso, ma a maggior ragione in questi ambiti, deve comunque essere data correttamente, contemperando nell’empatia, onestà e sensibilità. Va tenuto presente che onestà e verità sono più spesso apprezzate che temute e che dell’ossequio all’autonomia della persona fa parte il rispetto del diritto di sapere, così come di non sapere. Se la persona non è stata informata in modo corretto, pur manifestando il desiderio di conoscere la propria condizione, è nostro dovere avviare un processo virtuoso di coerente consapevolezza. Tale processo inizia con la semplice apertura e disponibilità al colloquio e può (o meno) progredire sino alla completa informazione-consapevolezza. Tuttavia, dovremmo sempre essere disposti ad arrestarci non appena il paziente manifesti volontà/desideri diversi. Se, al contrario, siamo certi che, nonostante il processo informativo sia stato completo ed efficace, la persona mantiene speranze irrealistiche, evidentemente ci troviamo di fronte a meccanismi di difesa inconsci (negazione-rimozione). Tali difese vanno rispettate, in quanto tutt’altro che disfunzionali. Comunque sia, compresa la natura di speranze irrealistiche, ne vanno considerate, previste e corrette le conseguenze. Tra queste, il tendere a nascondere sintomi, peggiorando la qualità di vita, come il negare la progressione di malattia, esponendo la persona a trattamenti aggressivi-futili e ritardando trattamenti palliativi5. A ciò consegue, in sostanza, che il paziente non possa vivere pienamente, by-passando di fatto un periodo importante della propria esistenza.
Conclusioni
Chiunque si occupi di assistere malati affetti da malattie cronico-evolutive non suscettibili di guarigione ha il grande privilegio di confrontarsi con persone che stanno vivendo uno dei periodi più significativi della propria esistenza. È nostro compito, come curanti, rivolgerci in primo luogo alla persona che ci si affida, rilevandone bisogni e ri-definendoli assieme, identificandone gli obiettivi, attivandoci per raggiungerli e sostenendone al massimo la speranza. Tra i bisogni della persona, anche se affetta da malattia in fase terminale, c’è la speranza stessa. Pertanto la speranza, in queste condizioni, è da un lato obiettivo di cura, così come, dall’altro, importante alleato-componente della stessa e va rispettata anche se divergente dalla nostra prospettiva. In quanto curanti, è nostro primo mandato curare al meglio la sofferenza (fisica-psichica-morale), in quanto toglie il senso al vivere e in conseguenza qualsiasi speranza. Tale cura va ben oltre il semplice atto sanitario o assistenziale. È importante essere consapevoli che le nostre parole (informazione- comunicazione), il nostro essere (conoscenza-percezione) e il nostro agire (cura) fanno la differenza, con conseguenze dirette affinché le persone che ci si affidano possano o meno vivere, sino alla morte.
* Dottor Luca Ottolini: Capo clinica Servizio cure palliative presso IOSI – Bellinzona
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